31 luglio 2012

Nomen Omen


Oggi, amici di forchetta, puro marketing,  ovvero “l’arte di complicare laddove regna la semplicità”, di nomare (oggi sono poetico, poetico e antico) un piatto in modo tale che, nel tempo della sua attesa, voi potete immaginarvi tutto e il suo contrario, salvo poi scoprire che quello che avete ordinato come “battuto di carne, con riduzione di pomodoro in agrodolce, salsa all’uovo ed anelli di cipolla saltati, in abbraccio di pane”, altro non è che un Big Mac di Mac Donald.

Che ci volete fare, siamo nell’era della vendita e, come ci insegano i saggi, la vendita comincia con il creare un’emozione, non un bisogno (veramente non ho assolutamente idea se i saggi dicano questo, ma mi piace pensarlo).

Come dire, non importa se quello che vi arriva nel piatto è una merda, l’importante è come avete vissuto la sua attesa. Pura trepidazione, ecco l’obiettivo.

“Spaghetti al sugo” e “Grano duro lavorato al bronzo e stirato, in ristretto di polpa di pomodoro” sono la stessa cosa, ma volete mettere la tempesta neuronale che vi susciterà la versione marketingara (che, stranamente, assomiglia a marchettara...) ? Tempesta che peraltro autorizzerà il ristoratore a farvi pagare cento quello che vale dieci. Non male come esempio di offuscamento del valore.

Ma non finisce qui, perchè se la scelta del nome appartiene al corso di “Unnecessary names”, è solo nel corso “How to deceive Your commensals” che si raggiunge la piena maturità.

Eh si, amici, perchè a molti non basta inerpircarsi sui sentieri della semantica, prediligiendo le traiettorie curvilinee rispetto a quelle diritte, a questi molti serve qualcosa di più, serve dare il colpo di grazia, quello che obnubila definitivamente il commensale, che lo metta in una situazione di tale inferiorità da annullarne le capacità critiche.

Se, anche solo per una volta, le vostre sinapsi hanno dato strada ad un pensiero del tipo“come posso solo immaginare di dire che questo piatto fa schifo se non ho nemmeno capito cosa sto mangiando ?”, allora avete perso. In partenza. Inutile illudersi.

L’apparire, per voi e vostro malgrado, ha trionfato sull’essere; l’ontologico è stato spazzato via dall’ontico. Martin Heidegger ne soffrirà, ma sono sicuro che se ne farà una ragione.

Scusatemi, mi sono lasciato trasportare dalle minchiate; torno a bomba sui contenuti del corso avanzato.

Dicevo, allora, che a molti non basta lambiccarsi il cervello per trovare un modo di trasformare una frase di tre parole in una di non meno di quindici, nella speranza che la trasformazione attragga l’ospite nello stesso modo in cui una mezza chiappa sui manifesti attrae il voyeur bavoso all’interno di un cinemetto di infimo ordine.

No, il nome è solo il punto di partenza, poi si passa agli ingredienti, che non sono mai quelli che ognuno di noi, meschino, pensa di comprare. Illusi che non siete altro, l’abile venditore vi declamerà prodotti che voi mortali potete solo anelare, perchè quei prodotti ce li ha solo lui, perchè sono rari come lo sono le stagioni di una volta (che è risaputo oramai non esserci più), perchè a lui gli li ha dati un contadino, che è morto subito dopo, senza lasciare eredi e, semmai ci fossero, le sue memorie sono andate distrutte in un incendio.

Gli esempi si sprecano, e per alcuni ne ho avuto giusto conferma qualche giorno fa, in un ristorante che, prima o poi, porterò al publico ludibrio in quel di Trip Advisor:
  • l’olio non è mai un buon olio extra-vergine, no, figuriamoci, è un olio che, come minimo si è classificato tra i primi dieci d’Italia, non si sa in quale campionato, ma non importa; 
  • il pistacchio, e qui vado sul classico, è sempre di Bronte, tanto che a qualcuno verrà da chiedersi se ‘sto Bronte sia un paese o, piuttosto, un continente, tanti sono i pistacchi che produce;
  • il pomodorino è – avete già indovinato, vero ? – inevitabilmente di Pachino, con la naturale conseguenza che, se Bronte è un continente, Pachino come minimo è un intero pianeta;
  • il pane non è semplicemente comprato al supermercato, figuriamoci, ma lievitato naturalmente, con lievito madre, cotto a legna, brematurato come fosse antani. Per voi ha lo stesso sapore del pane comprato al supermercato ? Siete coglioni voi che non sapete apprezzarne la differenza, ovviamente;
  • tutti i formaggi, dico tutti, sono sempre prodotti dal caseificio che “lavora come si lavorava una volta”, incluse naturalmente le condizioni igeniche, o semmai dal contadino, che conosce solo lui, of course, e che, aggiungo io, magari nutre le bestie con mangimi alla diossina. 
Si potrebbe continuare, ma mi fermo qui, tanto avrete già capito. Spiazzare, stordire, distogliere l’attenzione da ciò che realmente conta – quello che mangio è buono o fa schifo – a favore di ciò che è premessa, non conclusione.

L’olismo del piatto è spazzato via dalla solitudine dei singoli ingredienti e, chissà poi perché, ciò avveiene quasi esclusivamente nel mondo della gastronomia.

Pensate, domani vi andate a comprare una camicia, e il commesso, sentita la vostra richiesta, vi guarderà con accennato disgusto, dicendo che al più vi può mostrare un “lavorato di fibre, con variegatura di colori e guarnizione di dischetti in plastica forati”.

Andate dal ferramenta, nella pia illusione di cavarvela con un paio di minuti per acquistare, che so, un martello, e l’addetto vi propone una “fusione di metallo in forma tridimensionale, con julienne in legno” (il legno, naturalmente, preso in un bosco biologico e tagliato dal suo amico boscaiolo, che taglia gli alberi come si tagliavano una volta, con la scure, come faceva Gedeone in “Sette spose per sette fratelli”).

Insomma, avete capito, non nego che la presentazione di una cosa abbia il suo valore, ma solo che questo valore deve, necessariamente, essere secondario a quello della cosa stessa.

Benché io stesso, ogni tanto, o forse spesso, cedo alla tentazione, e propongo ricette con nomi che sembrano dettati da un uso smodato di sostanze psicotrope, vi esorto comunque ad una resistenza, attiva e passiva, ai tentativi di ammaliamento basati sull’esoterismo linguistico, preferendo di gran lunga quelli basati sul sapore, verso i quali dovete, al contrario, essere perfettamente permeabili.

Valorizzate i vostri piatti, anche attraverso nomi alternativi, ma senza esagerare. Date giusta evidenza agli ingredienti, ma solo se questi se la meritano: se il pomodorino lo avete preso da Lidl a 0,99 euri alla tonnellata, evitate di dire che arriva direttamente da Pachino, portato da una vostra lontana zia che, guarda un po’, li coltiva come si coltivavano un volta.

Onestà e trasparenza, prima di ogni altra cosa, poi, ma nella giusta dose, un po’ di overselling.

Nessun commento:

Posta un commento